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Teatro

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Alla scrittura teatrale non si approda per caso, ma solo dopo un lungo percorso che abbia attraversato altri impervi sentieri letterari, dopo una lunga frequentazione della lettura e non senza un’abitudine a guardarsi dentro e intorno, per raccogliere quelle voci che ci inquietano e ci agitano, ma che attestano che siamo vivi. E’ accaduto questo ad Elio Pecora che è e rimane prima di tutto un poeta, con una consuetudine allo sguardo interiore e all’ascolto , che gli ha permesso, ad un certo punto del suo itinerario , di tradurre in testi teatrali, quel teatro autentico che egli ha sentito sommuovere entro e fuori di sé.
La parola, che nella sua poesia è espressione pregna di significato e di significante, la parola attraverso la quale egli sa chiudere in un cerchio melodico e musicale le cose, si è trasformata in gesto e il gesto si è naturalmente inserito in uno spazio scenico, che è essenzialmente spazio dell’anima. E’ nato così un teatro, fatto di creature che si muovono all’interno di storie personali e familiari, cercandosi e trovandosi, pur nell’angoscia che sembra assalirle e devastarle. Si tratta fondamentalmente di donne, di madri , che tentano di uscire dalla gabbia in cui il loro ruolo le ha imprigionate, non per una ribellione , né per un rifiuto, ma più semplicemente perché vogliono un distacco da ciò che sono state nel passato, per essere ciò che sono nel presente, rimanendo al proprio posto e ripartendo addirittura dal proprio corpo.
Appunto “il corpo” è elemento prioritario nell’universo poetico di Pecora, perché rappresenta, come egli dice in una sua lirica, “quella gabbia di ossa e di arterie” dalla quale vigiliamo nel mondo, senza mai potercene separare, con cui dobbiamo sempre fare i conti per vivere. Questo spiega perché i suoi personaggi teatrali, pur nel momento del dolore, sono fisicamente molto evidenti con i loro vestiti, i loro caratteri somatici, persino con il loro bisogno di cibo: accade che in pieno dramma, una donna insista per preparare un te al gelsomino e lo offra con una fetta di torta, a chi si sta macerando nel desiderio di morte. E a proposito di questo, nel teatro di Pecora, la vita prevale sempre sulla morte, anche quando sembra non esserci speranza: un figlio “nell’altra stanza” è chiuso dal padre perché non vada in cerca della droga ed è prigioniero di un forte desiderio di morte, ma nello spazio intorno a quella stanza, si agitano persone vive, che litigano, conflittuano, si rinfacciano responsabilità; poi d’improvviso tutti appaiono disposti ad una tregua, per addolcirsi con un po’ di te e con una assaggio di crostata, perché il corpo reclama di vivere e di avere quei ritmi naturali che scandiscono l’esistenza quotidiana.
Le grandi metafore poetiche di Pecora, “il recinto”, “il paradiso dove è dato abitare”, “il Narciso”, “Il giardino”, “la partenza”, “il viaggio e il ritorno”, ci sono tutte nei suoi testi teatrali, dilatate in forma di spazio e circoscritte in forma di gesto, ma nello stesso tempo, ci sono i segni di una presenza, in mezzo e tra le cose, cose apparentemente banali, ma che appartengono all’uomo e lo accompagnano nella sua vita di ogni giorno: una tazza di porcellana, dei vestiti, un cappello, dei mobili antichi o soltanto vecchi, come un cassettone, una porta a vetri spalancata su un giardino, e altra suppellettile, che in questo teatro non funziona da scenografia, bensì da elemento sostanziale per rappresentare l’esistere.
Il nodo, l’irrisolto contrasto che si profila sin dall’inizio del dramma, si scioglie nel modo più naturale, tornando alla vita e alle cose. Come nella poesia Pecora non persegue le facili consolazioni, o peggio, le evasioni, così nel teatro, non punta alla distrazione, ma fa compiere ai suoi personaggi “l’avventura di restare”, già annunziata da un suo noto testo poetico. I personaggi in definitiva non tentano di raggiungere la salvezza , nè di realizzare la soluzione dei mali che li affliggono o di guadagnare l’uscita di sicurezza, ma piuttosto sono alla ricerca di una nuova misura, per fare un patto con la vita e seguitare ad andare avanti. Anche nella raccolta poetica “Per altre misure” Pecora conferma questa sua volontà di stipulare un patto con la vita e lo dice con chiari accenti: “non più la salvezza o l’uscita/ solo un altro patto/ una nuova misura, per seguitare.”
All’uomo come alla donna non tocca che recuperare “la voce perduta” e accettare il presente, senza sottrarsene. Questa nuova misura, che nella poesia l’autore propone, nel teatro sembra attuarsi più facilmente, favorita, dai gesti, dall’intreccio delle voci, e in particolare, dal gioco del “fuori scena” e “in scena”, che consente di allargare lo spazio oltre i limiti con l’immaginazione e il pensiero e contemporaneamente di delimitarlo a quello che davvero si vede e si percepisce sul palcoscenico.
La donna, domina tale spazio e vi si muove con un sapiente andirivieni di parole e di gesti concentrando su di sé l’attenzione dello spettatore, divenendo creatura di sofferenza e di riscatto, che si perde, si dispera, annaspa, ma poi si ritrova perché torna alla sua realtà corporea, al suo presente, o come dice il poeta “alla sua faccia”, “ai suoi piedi” .
I personaggi femminili condensano in sé nel teatro di Pecora, il dolore atavico , di tutti i tempi; sono creature educate alla paura, all’abbandono, alla solitudine, in esse c’è Arianna che piange sulla spiaggia deserta, Medea che compie la sua vendetta, punendosi, Al cesti che muore perché viva lo sposo. Eppure queste creature, che nella poesia di Pecora compaiono sempre in guerra con se stesse, nel teatro ci appaiono come pacificate, perché decise ad allontanare il passato e ad accettare una vita momento per momento, che possa loro bastare.
Non si vuole però asserire che i personaggi maschili non abbiano una loro rilevanza nel teatro di Pecora, vi sono e sono importanti, ma hanno un ruolo diverso perché, come dice l’autore nella prefazione, spesso sono “guerrieri distratti e stanchi, incapaci di cercare altre strade, dopo essersi così lungamente perduti”. A volte si ha la sensazione che tra loro e le donne si sia innalzato un muro, che mostra tutta la loro incapacità di comprendere, o meglio l’unilateralità della loro comprensione. Ma proprio questo li rende più vulnerabili e indifesi, irrisolti e chiusi nella loro impossibilità di liberarsi del passato e di vivere nel presente.
Ma torniamo ai testi e alla parola poetica. Nel teatro certo non si compie la magia della parola poetica che in poesia riesce a raggiungere una purezza di suoni e una perfetta identità tra suono e immagine. Nel teatro il gesto si deve sostituire alla parola, ed è in ciò la straordinaria capacità dell’autore di ricreare i gesti e le azioni, attraverso un meccanismo verbale di battute concise, rapide, sature di umori , che anche a sola lettura del testo, disegnano spazi e configurano situazioni, atteggiamenti, caratteri.
Abituato ad animare serate di reading tra poeti e artisti del mondo letterario romano, Pecora ha saputo utilizzare la sua esperienza di arte combinatoria per armonizzare la teatralità della poesia, con la teatralità della vita, realizzando dei testi teatrali, che nella loro brevità riassumono in pieno la sua filosofia , basata sull’accettazione fiera del dolore e sulla pietas
da spandere sulle tragedie umane, una pietas fatta di reale compassione, cioè compartecipazione, sostegno, resistenza paziente alla quotidianità dilaniante, mai fuga o rifiuto.
C’è molto della classicità del mondo greco, nel teatro di Pecora e non solo nelle opere più direttamente ispirate ad essa, come l’Alcesti e il Pitagora, ma anche in quelle per così dire moderne, ove donne e figli e mariti dei nostri tempi si muovono all’interno di una storia o di singole storie individuali. Certo mancano gli dei, manca il loro intervento, ma rimane la iubris, rimane, l’incomprensibilità del caso o del fato, rimane la lotta dell’uomo ridotto ad una marionetta inconsapevole che vuole però trovare se stesso e aspira ad un’impossibile armonia. Nel dramma “Nell’altra stanza” Ugo dichiara: “gli eroi greci sono incerti, bugiardi, ma agiscono per superare l’incertezza e la bugia” e ancora: “sanno che si portano dentro come una fame inesausta, l’attrazione del niente. Contro questa attrazione fanno una guerra di pensieri e di gesti. Inventano genealogie, costruiscono templi”.
Tutti i personaggi del teatro di Pecora, fanno una guerra di pensieri e di gesti , per non arrendersi alla sofferenza e alla morte, e alla fine trovano pace, sebbene una pace momentanea, quasi un breve ristoro dopo la lotta, nel rimanere al proprio posto, prendendosi cura di sé, dando attenzione alle cose che li circondano, nelle quali sembra serrarsi il segreto della sopportazione del male.
Il teatro di Pecora ha dunque un’indiscutibile eticità che è identica a quella della sua poesia: poesia alta e colta, di un intellettuale che non è mai sceso a compromessi, teatro originale e nuovo di un uomo che da sempre vuole rilanciare la dignità umana e ridare valore all’esistenza, agganciandola al bene, all’amore, alla solidarietà.

 Loredana Savelli - 26/01/2010 20:12:00 [ leggi altri commenti di Loredana Savelli » ]

Interessante osservare l’evoluzione della poesia in testo teatrale. E’ una nuova ricerca per l’autore? E’ il processo naturale della poesia che, in sé, è sempre "teatrale" in quanto espone (sovraespone)l’anima e il corpo, come del resto fa il teatro ma in una maniera più "invasiva"? Un libro che va letto.

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